Essere o non essere indispensabile sul lavoro?

Sto lavorando da diversi mesi per una grande azienda e sto letteralmente facendo a botte con alcuni pensieri che mi tormentano e mi divertono allo stesso tempo.
Tutti siamo utili ma nessuno è indispensabile.
E in fondo è vero. Ogni buon manuale di management lo insegna. Del resto, la presenza di persone indispensabili crea diversi problemi di tipo organizzativo. Cosa succede quando vanno in ferie? E se si ammalano? O, peggio ancora, se cambiano azienda?
“Sentirsi indispensabili per la propria azienda è una grandiosa combinazione di euforia e di sicurezza”, dice Lolly Daskal (su inc.com), ma non sono totalmente d’accordo.
Noto spesso, infatti, che chi si sente indispensabile soffre di quella che viene definita la “sindrome della cavallina” ovvero il costante timore di essere scavalcati. Si, stiamo parlando proprio di paura.
La paura di non servire più, di diventare obsoleti (in termini di competenze) e di perdere la propria posizione.
E non sono d’accordo perché ognuno di noi è esattamente il risultato delle proprie competenze e del proprio destino. Quindi invecchiare professionalmente è nient’altro che una nostra scelta.
L’unicità va coltivata, va alimentata con lo studio, il confronto e la sperimentazione. Ma soprattutto va condivisa: i veri leader non cercano follower ma lavorano per creare altri leader.
In ambito business, tuttavia, è assolutamente sbagliato pensare che ogni mansione svolta da un dipendente possa essere portata a termine allo stesso modo da un altro dipendente, così come non è corretto ritenere che in un gruppo di lavoro tutti i componenti del gruppo rendano allo stesso identico modo nello stesso identico tempo.
Ecco quindi che bisogna cercare l’individualità, coltivare la personalità, il genio, l’attitudine a svolgere determinati compiti e non altri. E soprattutto bisogna premiare il merito, riconoscere un quid a chi si impegna quotidianamente per raggiungere i piccoli risultati.
L’azienda che citavo in apertura è una multinazionale con qualche migliaio di dipendenti. Ha una struttura organizzativa piramidale in cui si comunica in maniera unidirezionale esclusivamente osservando le gerarchie. Ebbene, in questa azienda tutti sembrano essere sostituibili, in teoria, ma in pratica se viene a mancare una figura a qualsiasi livello, decade la squadra che quella figura ha costruito e ci vuole tempo perché si formi un’altra squadra che funzioni allo stesso modo.
Umberto Eco diceva che i sinonimi sono sinonimi solo al 50%. Non possono sostituire in modo perfetto i termini ma quando vengono utilizzati aggiungono o lasciano indietro qualcosa. Eco sosteneva che non esiste una parola che sia totalmente uguale a un’altra.
Rapportando questo concetto alle persone deduciamo che ognuno di noi è sostituibile al 50%. O, per meglio dire, possono essere sostituiti solo coloro che svolgono compiti banali o ripetitivi, solo coloro che sono ingranaggi di una grande catena di montaggio.
Citando Erri de Luca (Alzaia, Feltrinelli 2014) possiamo dire che “ognuno è un dono, un’aggiunta non necessaria, che non va a colmare una casella vuota, ma arricchisce tutte le altre. Ognuno è un pezzo unico, irripetibile, la cui fine è spreco totale, senza riparo, senza rimpiazzo, senza risarcimento. Nessuno può essere sostituito. Nessuno è necessario, ognuno è indispensabile.”
Tornando al quesito che mi sono autoimposto nel titolo di questo post, occorre essere o non essere indispensabili sul lavoro?
La domanda può avere diverse risposte a seconda della persona che la pone. Un professionista, un business man ha il diritto di sentirsi indispensabile. Il collaboratore può sentirsi più o meno indispensabile in base a quanto l’imprenditore riesce a fargli percepire la propria unicità.
Le aziende sono organismi complessi dove non è possibile attribuire delle funzioni vitali a dei singoli elementi, ma dove a volte anche se uno solo di questi elementi viene meno per un motivo qualsiasi, si rischia di pagare gravi conseguenze.
Just my two cents is all.